Sono un padre e un marito. Mi guadagno da vivere lavorando. Sono da sempre un pendolare stritolato nel tritacarne delle ferrovie. Mi si chiedono prestazioni e in cambio pretendo il mio salario. Sono consapevole che di qualsiasi esperienza posso parlare solo se parto da un punto preciso. Chi sono, da dove vengo. Non ho la presunzione di esprimere concetti universali. Racconto quello che ho visto e che vedo. Quel che scrivo, dipende dal mio punto di vista. Della mia famiglia, della mia terra, della mia gente.
I miei genitori sono (stati) gran lavoratori. Mio padre era agente di commercio e passava fuori tutta la settimana. Mia madre si caricava di lavoro per fingere che non ci fossero preoccupazioni in casa. Se le nascondeva nei cassetti e tirava avanti. Di giorno andava in uffici misteriosi e tornava a sera portandoci un ovetto Kinder. Con mio fratello la aiutavamo a togliersi gli stivali (erano gli anni settanta). Dal nostro letto, sentivamo il ticchettare sulla macchina da scrivere o il rullo della calcolatrice: di notte curava la contabilità dell’ennesima azienda. Così di giorno si passava il tempo con mia nonna, che ci voleva veder su dritti e senza tanti grilli per la testa. Questa è la sua storia.
Fortunata Pighini
Una donna vispa e minuta, svelta di lingua e ragionamento, entrò in piena epoca fascista in una famiglia colonica. Sette tra fratelli e sorelle, con pezze di campo da coltivare distanti chilometri. Una squadra di campanoni, testardi e lavoratori come muli: i Cerlini. La piccoletta era l’ultima nata di una famiglia di montanari, originari di Montecagno, alle pendici del Cusna. In zona si chiamano tutti Pighini e Paoli, e l’insolente giovinetta infatti non faceva eccezione ed era una Pighini pure lei. Fortunata il suo nome, ma per una vita fu chiamata Fortuna. Il padre era morto nella Grande Guerra, come molti della sua generazione, lasciando una giovane madre con tre figli: Margherita, una picagliona dalle lunghe orecchie, Romeo, che si guadagnò, da maschio, tutta l’eredità, infine la monellaccia dalla lingua lunga, che andò presto in sposa al maggiore dei Cerlini, Primo. La Fortuna mi raccontò che il primo giorno da sposina la matriarca Teresa la pose di fronte alla scelta: o andare nei campi con la squadra, o tendere alla casa (“tender” significa guardare, ma anche controllare e prendersi cura). Fortuna fece due calcoli: pulizie, fare il pane, galline e conigli, l’aia, paiolo per una tribù. Meglio i campi. Partì all’alba del giorno dopo con il marito e i ragazzi, armata di salame e fiasco di vino. Tornò alla sera ben decisa a rassettare e cucinare per il resto della sua vita cerlinesca. Meglio sguattera che morta, mi disse anni dopo. La prima impresa della futura matriarca fu la battaglia per il latte. I campi coltivati dai Cerlini erano del prete di Albinea, che stava in cima alla collina e sovrastava le terre intorno. Per dire, adesso lassù, con identico ruolo, vive la famiglia Maramotti. Fortuna scoprì che, per timore e reverenza, quei giandloni alla mattina non bevevano il latte delle loro mucche perché ancora non era smezzato. Aspettavano che il prete si prendesse il proprio e solo dopo si permettevano di godere della roba. Furibonda l’orfanella si arrampicò sulla collina e impose al padrone di smetterla con queste angherie e lasciasse ai Cerlini almeno il latte e le uova per la colazione che poi nel far metà con quel che restava ci si sarebbe messi a posto in qualche modo. Si face subito notare, l’impertinente nanerottola. Le gesta della Fortuna sono molte e molto colorite, ne racconterò un paio.
Si eran messi, Primo e Fortuna, ad allevare e commerciare i polli. Se ne andavano in giro con il carro trainato dai cavalli. Ne avevano due. Ebbene quando il castrone s’azzoppò, Primo dovette sopprimerlo per pietà, con grande dolore e amarezza, come ammazzare un amico. Fortuna lo vide tutto contrito e tentennante e gli propose: “Lo faccio io, se non te la senti”. L’uomo, toccato nell’onore di maschio, si fece coraggio e portò a compimento il sacrificio: “Cosa stai a sarfoiare di ammazzare cavalli! Non è mica come tiare il collo alle galline”, le disse sul corpo stramazzato, sconfortato per la prova e la visione. L’avesse mai detto. Fortuna andò nella stalla e piantò un chiodo in fronte alla cavalla rimasta. Ah no, far fuori il malato è per i maschi, ma uccidere per far vedere di cosa si è capaci è proprio delle donne. Dovettero ingegnarsi a comprare un mezzo motorizzato.
Assodato che la Fortuna era capace di tutto, ma quando si dice “di tutto” s’intende proprio “di tutto”, ce n’è un’altra da raccontare, per dire della lingua lunga. Dopo i polli, Primo si mise a commerciale maiali, soprattutto in Toscana. Andava e veniva dalla Garfagnana, con la strada che era tutta un bissa boga, con il camion a pelo agli strapiombi. Quando partiva, stava anche via dei giorni e la Fortuna badava ai meli, alle amarene e all’orto, oltre che ai due figli che grandivano e mangiavano come i lupi. Un albinetano un po’ borioso, uno di quei signori che avevan tempo per bighellonare, ogni tanto si avvicinava al colonico dei Cerlini, per comprare un po’ d’ortaggi o frutta fresca e si divertiva a mettere zizzania.
“Mi dica un po’ Fortuna, ma non la preoccupa che suo marito se ne sta tutto solo là in Toscana?”
“Se mio marito se ne sta solo in Toscana, io me ne sto sola a casa mia e c’ho pure il letto comodo e vuoto. A preoccuparsi dovrà essere lui” rispose e ficcò gli occhietti vispi come due spilloni dritti alle pupille. Era capace di scandalizzare, e tutto sommato, se ne fregava delle opinioni degli altri. Ecco, quando sento parlare di femminismo, penso a mia nonna.
La mia famiglia è da sempre matriarcale. Son cresciuto con le massime terrigne della Fortuna, con la sua parlantina puntuta. E ho sempre pensato a causa sua che l’intelligenza si faccia splendente nelle donne minute. Senza nulla togliere alle picaglione, sia chiaro. Il fatto è che in campagna le braccia servivano per i campi, ma il cervello fino serviva per far andare le cose a loro modo e allora che gli uomini andassero a coltivare e le donne a casa a fare i conti e comandare. Non so se questa storia possa portare acqua al mulino dei diritti delle donne, forse no. Ma son certo che la Fortuna i piedi in testa non se li è fatti mettere mai, da nessuno.
Da parte di madre
Da parte di madre vengo da una famiglia del sottoproletariato urbano della mia città. Luigi Luglini, mio nonno, si chiamava così perché trovato a luglio, fuori dal portone di una chiesa. Fu allevato dal conte Adelchi Sigismondi, orco e sfruttatore, che di mestiere allevava orfani e ne riceveva indennità dal regime fascista. L’orco obbligava la moglie a operare come mammana. Di fronte alle loro stanze il bordello dava sempre nuove clienti da sgravare. Il rovescio della medaglia era che la signora Mecomonaco, ostetrica, levatrice e dispensatrice di morte clandestina, si faceva regolari villeggiature in gattabuia. L’appartamento stava proprio sopra l’osteria ed era insieme uno svantaggio e una fortuna. Da sotto saliva odore di fritture, ma l’oste portava ai bambini quel che rimaneva, puzzolente di fumo di tabacco, perché allora si sa chi non fumava era uno senza nerbo, un poco di buono, un maróch. L’orco aveva la passione per i canarini e teneva gabbie ovunque, così che il fumo e il fritto d’osteria ripulivano le stanze altrimenti impestate dal puzzo del guano. Luigi Luglini iniziò a lavorare molto presto e la paga veniva sequestrata dal conte orco per le sue spesucce nel portone di fronte. Fu assunto alle Reggiane: il leviatano ingoiava sempre nuovi operai e non era mai sazio. Ce n’erano 12.000 stipati nei grandiosi hangar oltre la ferrovia. Durante la guerra le Reggiane fabbricavano gli aerei del duce, apparecchi favolosi che si comprarono anche i generalissimi dell’esercito svedese e ungherese. Pure il fuhrer ne volle, per armare la Luftwaffe. Il rischio di bombardamenti era altissimo tanto che l’intera cittadella industriale venne rasa al suolo il sette e l’otto gennaio del 1944. Anche la storia delle Officine Meccaniche Reggiane è una bella e terribile trama che meriterebbe un bravo scrittore. Già qualche poeta ha cantato i martiri di Reggio Emilia. Sì anche Luigi Luglini si sposò, con una cugina della matrigna, Anna Di Scipio, mia nonna, ed è una storia altrettanto avventurosa. Ma non è tempo per parentesi romantiche o bizzarre. I lavoratori con l’8 settembre 1943 vennero sfollati nella bassa e Luigi Luglini con pioggia neve o canicola padana si faceva, prima dell’alba e dopo il tramonto, trenta chilometri per arrivare alla fabbrica. In quel tempo già mia madre, fortunella, passava l’infanzia a Crecchio, in Abruzzo, dai Di Scipio. Quel che mi preme raccontare è un particolarissimo destino di famiglia. Nel 1950 le Reggiane danno avvio ad un piano da 2100 licenziamenti. Gli operai danno vita a una delle più grandi esperienze di occupazione e autogestione del dopoguerra. Luigi Luglini, mio nonno, invece, espatria. Si dice di lui che divenne minatore in Belgio poi muratore in Francia. Le sue peregrinazioni si perdono nella leggenda, mentre a casa Anna Di Scipio alleva quattro marmocchi tirandoli su con espedienti. Gli aneddoti della famiglia senza un soldo in un quartiere di immigrati sono da romanzo. Per dirne una. Mi ha raccontato zio Giorgio, eclettico strumentista, musicista beat negli anni sessanta e settanta, che certe sere i fratelli andavano a tavola, tutta apparecchiata. Cambiavano sedie saltellando dall’una all’altra e facevano tutto il giro. Non devo certo rivelare a voi, saputi intellettuali, che i piatti erano tutti vuoti. Ma perché mai questo strambo cerimoniale? Per poter dire, cari i miei notabili lettori, che si erano seduti a cena.
Musicisti e poeti sgobboni
Dicevo di mio zio musicista. Ma non si pensi che Giorgio fosse uno di quei capelloni fannulloni e fanfaroni, che si davan tante arie d’artista. Non se lo poteva permettere. Con la band, I Selvaggi, se ne andarono a suonare anche a Milano, al Blue Note: questo per dire che non eran tanto scarsi. Ma zio Giorgio ha sempre lavorato e a un certo punto ha dovuto scegliere se seguire la carriera di strumentista che faceva vita da bohème oppure metter su famiglia. Per dire dei miei due zii maschi: han cominciato a lavorare a tredici anni, ma anche prima qualche lavoretto lo facevano. Comparse nei teatri da bambinetti e bibitari negli stadi un poco dopo. Zio Lucio poi è entrato in fabbrica e c’è morto. Era un gran comico e avrebbe avuto un futuro da Totò, ma era il maggiore dei maschi e non c’erano tante alternative.
Ho poi un altro personaggio, dalla parte montanara: Fraschìn, lo zio poeta, il cognato di mia nonna.
Inventava sirudelle: filastrocche dialettali con il ritmo della danza. Polka, valzer, la mazurca. Eran storie divertenti, comiche quel che bastava, mai troppo lacrimevoli, a volte con la morale. Papà andava a trovare i cugini e io amavo stare con lui. Mi portava per mano al bar della parrocchia di Rivalta e mi offriva la coppetta o un bif. Lui si faceva la fumatina e parlava con gli amici delle carte. La parte emozionante era andare mano nella mano col poeta. Non ha lasciato niente di scritto, di mestiere faceva il carriolante. Andava al fiume a prendere carriole di sassi e le portava oltre l’argine per farci vialetti e cortili di ghiaia. Quando Pasquino, il cugino di mio padre, fu cresciuto abbastanza gli insegnò il mestiere. Ma Pasquino aveva lo sbuzzo per i macchinari e divenne un tecnico, poi andò a lavorare alle Reggiane, fu licenziato come tutti e creò la sua officina. Negli anni ottanta girava con la Ferrari e andava a caccia in Ungheria. Di cinghiali, a quanto pare. Ma è un’altra storia. Eppure Fraschìn il poeta faceva il carriolante e inventava sirudelle che tutta Puinello conosceva. Mi spiace non aver passato più tempo con lui e con zia Margaréta, dalle formidabili Zuppe Inglesi. Mi rimane l’orgoglio d’esser stato portato al bar da quel grand’uomo. Di avere orecchiato qualche sirudella piccante che faceva ridere mio padre e i cugini. Di avere inteso qualche aforisma, qualche massima che erano tutta la saggezza di quel mondo. I poeti sono così, fanno la fortuna di quelli che incontrano, e continuano a spingere pesi sugli argini. Mi hanno detto che le sirudelle di Fraschin erano capaci di saggezza, ma anche di attirare l’ira dei signori, coglionati dalle rime. Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi, ci ammonisce Gesù nelle parole di Luca, l’evangelista. Bisogna essere uomini verticali e coraggiosi, per fare i poeti per davvero.
AEmilia
Non si capisce quel che scrivo se non s’intende che sono emiliano. Non dico solo per le parole, scancherare, bissa boga, prendere il trapicco e burazzo. Dico per le ossessioni. Da noi l’ultima guerra ha lasciato uno strascico lungo che arriva fino alla mia infanzia. Dai partigiani parte una linea rossa, per niente sottile, che si annoda agli anni di piombo, alle organizzazioni armate della sinistra extraparlamentare. Molti di noi hanno legami famigliari con la guerra partigiana o con le Brigate Rosse. Nelle famiglie si raccontano da decenni aneddoti sull’Operazione Tombola o sull’appartamento di via Emilia San Pietro 25. Personalmente ho sentito raccontare più volte come sono andate le cose con Alceste Campanile. Erano i settanta. Molti giovani tenevano in tasca il cannone, come chiamavano le pistole, e avevano storie di droga. Nella mia infanzia di campi e periferia rimanevo sempre stupito da quelle due parole che vedevo come graffiti sui muri abbandonati: “Dio c’è”. Come molti ho un parente strettissimo con un passato da tossico. L’ho visto entrare da noi euforico e disperato e chiedere soldi a mio padre. Sono scene che ci accomunano. Nell’Operazione Tombola il Battaglione Alleato transitò proprio accanto al colonico dove abitava mio nonno. Stavano a Botteghe, poche centinaia di metri a monte di Villa Rossi. Mi ha raccontato zia che il gruppo di britannici, partigiani, italiani e russi fu bene attento a camminare esattamente ai bordi del fosso che separava il confine di due proprietà, in modo da non attraversarne nessuna e non dare scuse per rappresaglie. Non ci furono comunque come attesta la storia, grazie alla cornamusa scozzese che classificò l’attacco come militare e non partigiano. Enzo Cerlini, che sta a terseint meter ded ché, a Bellarosa, proprio sopra un declivio di vigne, potrebbe raccontare storie succose di quegli anni. Al funerale di suo padre, zio Sesto, suonarono Bella Ciao. Allora credevo fosse l’inno del nostro distretto e invece ho poi scoperto che è una canzone che appartiene al mondo. Nonno Primo (sì, Primo e Sesto, ma anche gli unici numerati di sette fratelli) divenne consigliere comunale nelle prime elezioni amministrative del Comune di Albinea, nel 1946, per il Partito Socialista. Stracciò la tessera l’anno successivo perché contrario al Fronte Popolare. L’ascesa politica della famiglia finisce lì. Nonno primo doveva badare a tutta la squadra, era il maggiore. Il nostro scotmàj è “Sidori”, non chiedetemi perché. I Sidori erano mezzadri. Coltivavano le terre del prete. Quando nel settembre ’64 la mezzadria venne abolita, avevano comprato qualche biolca di terra. Troppo poche per camparci. Si misero a vendere polli, poi maiali. Le porcilaie sono sempre state posti famigliari, nella nostra infanzia. Come i fienili e le stalle. Nonno Primo è morto che avevo cinque anni, quasi sei. L’ha ucciso un fallimento.
I Sidori
Se penso a mio nonno o a mio padre, non vedo affatto uomini fragili. Noi che non scriviamo libri perché dobbiamo lavorare, o che scriviamo libri che leggono in pochi, perché non possiamo farlo di mestiere e addestrarci tutti i giorni come fanno le ballerine per la danza, non siamo affatto fragili. Non abbiamo bisogno di sostegni o terapie perché abbiamo dovuto imparare in fretta. Non siamo stati coccolati da nostra madre perché aveva da lavorare durante il giorno e ci siamo arrangiati a fare i compiti da soli. Non abbiamo ascoltato insegnamenti colti o liberal dei padri, perché papà arrivava troppo stanco a casa alla sera o anche non lo si vedeva affatto. Siamo stati umiliati a scuola perché non avevamo i vestiti migliori ed eravamo fuori dal cerchio magico delle famiglie per bene. Abbiamo cominciato con lavori umili e non abbiamo affatto paura a rifarlo di nuovo. Abbiamo perso il lavoro, anzi siamo stati licenziati. Ci siamo rimessi in piedi, e abbiamo trovato di nuovo un lavoro e in fretta perché non potevamo permetterci di non farlo. In nero? Sì in nero. Un lavoro quale che fosse. Abbiamo subito ingiustizie. Abbiamo visto i figli di o gli amici di sfrecciarci di fianco, guadagnare il doppio di noi facendo la metà. Poi ci siamo rialzati e ci siamo rimboccati le maniche.
Però mio nonno l’ha stroncato un fallimento e a mio padre un fallimento l’ha fatto morire pian piano. Perché a un certo punto mancano le forze, non si può andare a mille all’ora tutta una vita. Non si può cadere nel buco, risalire, ricadere e risalire senza che non ne abbia un effetto al cuore. Nonno si fidava di un commerciante toscano. Gli aveva venduto tutte le bestie. “Fidati Fortuna, l’è un amiig”: gli amici non ti fregano. Invece rimase con un pugno di mosche in mano. Quando si parla di porci le mosche non sono mica una metafora. Mio padre si convinse invece a fare un’aziendina di commercio tutta sua. Funzionò bene, c’era da spezzarsi la schiena ma portava a casa bei quattrini (e se la spezzò davvero, la schiena: gli venne un’ernia che lo piegò per quanto rimaneva della vita). Reggio Moda dipendeva da una grande maglieria di Puianello. È stato fatto fuori d’improvviso per speculazioni sbagliate, per il cambio di proprietà, per i neutri e spietati eventi dell’industria. Beh leggete “L’ora muta” e ne saprete qualcosa in più. Erano gli anni novanta e mio padre ha vissuto un dolore che non colsi. Pago ancora ogni giorno il senso di colpa per averlo capito tardi. Perché avrebbe avuto lui, in quel momento, bisogno dell’aiuto che non diedi.